79esimo anniversario dell’Eccidio della Bettola

Venerdì 23 giugno ho partecipato e sono intervenuta a Vezzano sul Crostolo (RE), in occasione del ricordo per 79esimo anniversario dell’Eccidio della Bettola, un crimine compiuto dalle truppe nazifasciste che uccisero 32 civili, bruciandone poi i corpi.
Di seguito il mio intervento.


L’eccidio della Bettola è certamente un episodio tra i più crudeli avvenuti in quel terribile biennio 1944-1945. Un crimine di cui si resero colpevoli principalmente le truppe d’occupazione nazista.
Qui, come a Sant’Anna di Stazzema, come a Cervarolo, come a Marzabotto, come in decine di altri casi, anche quando non ne furono direttamente responsabili, certamente un grande contributo a queste stragi fu dato ai tedeschi dai fascisti italiani. E questo è bene dirlo, ricordarlo e sottolinearlo.
Perché il tema ha molto più attinenza con il presente di quanto si pensi.

Come italiani, abbiamo fatto i conti con questo nostro passato? La risposta, banale, è no. E da questo deriva tutta una nostra storia di “autoassoluzione” che, passo dopo passo, consente oggi a molti di credere e dire “eh, però ha fatto anche cose buone”, passo dopo passo consente a molti di rivendicare, rimpiangere, provare nostalgia, passo dopo passo consente alla seconda carica dello Stato di esibire orgogliosamente la sua collezione di busti del duce. Sono tutti piccoli passi – anzi, nel nostro caso tracce di passi non compiuti – che, a distanza di quasi 80 anni dai fatti di allora hanno una loro influenza nel dibattito di oggi.

L’autoassoluzione è un bel modo per sistamersi non solo la coscienza, ma per sistemare anche la proprio storia. Non è mai colpa di nessuno, in questo Paese. E con questo non si tratta di essere giustizialisti o forcaioli, ma di saper leggere le pagine della storia e farne tesoro per il presente.

Non è “colpa” nostra se pure umiliamo il valore e la dignità della persona, di qualunque credo, orientamento, provenienza essa sia, qualunque siano le proprie scelte di vita.
Non è “colpa” nostra se, improvvisamente, oltre 30 bambini e bambine perdono il diritto di avere nominalmente i genitori che li hanno voluti e cresciuti con amore.
Non è “colpa” nostra se non tutti hanno il diritto di aspirare a una vita libera e migliore e ricca di opportunità.
Non è “colpa” nostra se il lavoro non è sicuro e tutelato, come base fondamentale della dignità della vita delle persone.
Non è “colpa” nostra se centinaia e migliaia di persone muoiono in mare.
Non è “colpa” nostra se dittatori vari attentano alla libertà di intere popolazioni, non solo quelle governate da loro, seminando guerra e paura.
Non è “colpa” nostra se assistiamo ogni anno alla strage di donne vittime di odio, violenza, umiliazioni.
Non è colpa nostra. Non è mai colpa nostra.

Ecco a cosa porta questo senso di deresponsabilizzazione collettiva, ultimo frutto avvelenato della stagione del fascismo, che ancora oggi è con noi.

Le vittime della Bettola – assassinate, bruciate, stuprate, 32 persone che hanno avuto l’unica “colpa” di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato – ci dicono invece l’esatto contrario: è colpa nostra, se per “colpa” intendiamo la mancanza del sentirsi coinvolti.

Il coinvolgimento, secondo me, si traduce in un termine concreto: “pubblico”. La scuola, l’istruzione, la sanità, l’assistenza: il valore del “pubblico” non è tanto nell’essere per forza di cose migliore di altri sistemi. Ma è nell’universalità e nell’accessibilità, nel pensare che ogni cittadino e ogni cittadina, in quanto tali, possano e debbano trovare nello Stato – nel servizio pubblico appunto – la risposta a un bisogno, a una necessità. Ma non solo questo: il “pubblico” è tale anche perché consente le due direzioni, consente cioè a tutti, secondo le proprie possibilità e capacità, di prendervi parte, di sentirsi coinvolti, di pensare “mi interessa perché anche io ne faccio parte”.

Sono questi i valori che ci definiscono “antifascisti”, ancora oggi, non tanto una generica adesione che non entra mai nel merito delle questioni. Non basta dichiararsi antifascisti, perché il termine antifascista non è declinabile senza accettarne i valori. E allora io dico che se si lasciano delle persone morire in mezzo al mare, se si tagliano servizi, se si fanno differenze tra i cittadini sulla base del loro essere uomini o donne, madri o lavoratrici, ricchi o poveri, se la propria salute è un bene diverso a seconda se uno viva in una Regione piuttosto che in un’altra, se si tagliano le tasse solo per eliminare servizi pensando che tanto chi se lo può permettere una soluzione la troverà, ecco che allora non è più il termine “antifascista” o meno che fa la differenza. Ma la parte da cui si sta.

Oggi abbiamo un grande lascito di libertà, democrazia, diritti e occorre rivendicare l’orgoglio per la nostra storia di Resistenza e di lotta per la Liberazione dal nazifascismo, che ha garantito a tutti noi di vivere in un Paese libero e democratico. Perché la Resistenza ci ha insegnato il valore del “noi”, dell’essere “comunità”, con il coraggio di chi ha sempre agito nell’interesse collettivo. Oggi viviamo in una società iper informata e iper connessa, ma troppo spesso corriamo il rischio di essere iper individualisti. Si possono fare tanti esempi che fanno parte della nostra quotidianità: il silenzio davanti allo straniero che chiede l’elemosina, allo studente che fa il bullo, alla donna vittima di violenza, a un ragazzo emarginato, a una persona con disabilità o a un anziano lasciato solo. Essere partigiani, invece, significa mettere a valore la ballezza della diversità, aiutare chi è in difficoltà, non voltarsi dall’altra parte di fronte alle ingiustizie, essere coraggiosi, sempre, nel perseguire i propri ideali di solidariet, equità, che la lotta di Resistenza e i costituenti ci hanno consegnato. Ovunque la giiustizia e la dignità vengano attaccate, umiliate, offese o distrutte, è tempo di Resistenza.

La storia, infatti, non è un processo di autoassoluzione, ma un cammino di consapevolezza: la conspevolezza che con i propri errori occorre fare i conti per non ripeterli, che il tempo può aiutare a curare certe ferite, ma non ci chiede di chiudere gli occhi e la mente. E ce lo chiedono anche i 32 martiri della Bettola.

Questo, dunque, a mio giudizio, significa, ancora oggi, essere “antifascisti”: essere consapevoli. Consapevoli che la giusitizia, la pace, i diritti non arrivano, mai, per grazia ricevuta. Ma si costruiscono insieme. Anche opponendoci, sempre, alla barbarie, sotto qualunque bandiera e volto sorridente a apparentemente innocuo questa si presenti.

Care cittadini, care cittadine, oggi tocca a noi scegliare da che parte stare, ogni giorno, reinterpetando lo spirito più vivo dei partigiani e degli antifascisti, con quel coraggio e quella generosità con cui hanno difeso la libertà che ha dato vita alla nostra Repubblica democratica. Perché il nostro essere “noi” che oggi, come sempre, genera uguaglianza, pace, opportunità, diritti, solidarietà, vita. E a costruire questo “noi” siamo chiamati tutti, nessuno escluso, perché solo insieme potremo seminare speranza e costuire un futuro di libertà, diritti e pace, rendendo onore anche ai 32 caduti della Bettola, che qui, oggi, ricordiamo.

Grazie